L’anemia è una malattia che rappresenta un grave problema per i pazienti che ne sono colpiti. Il fabbisogno di globuli rossi e di una terapia ferrochelante è costante. Si parla di frequenti sedute in ospedale, in alcuni casi anche tutte le settimane.
Oggi sembra però essere in arrivo una nuova terapia in grado di rivoluzionare completamente il metodo di trattamento di questa malattia. Con la nuova molecola chiamata luspatercept è possibile ridurre il bisogno di trasfusioni di sangue.
Questo farmaco biologico sembra essere in grado di stimolare la maturazione delle cellule del sangue e ridurre così la necessità di trasfusioni. Le conseguenze potranno essere significative sul decorso clinico e sulla qualità di vita dei pazienti.
I benefici della nuova molecola, approvata da EMA in Europa (l’Agenzia Europea del Farmaco), sono stati pubblicati in due studi sul New England Journal of Medicine.
Cos’è la beta-talassemia?
La beta-talassemia è una delle malattie genetiche più diffuse in Italia. Un tempo veniva chiamata “anemia mediterranea”, data la sua particolare presenza nelle popolazioni delle aree che si affacciano sul Mediterraneo. I sintomi della beta-talassemia major compaiono già nei primi mesi di vita.
La malattia è curabile attraverso cicliche trasfusioni di sangue, ovviamente non prive di effetti collaterali e decisamente scomode per i pazienti che ne soffrono, e con una terapia ferrochelante, per evitare che il ferro in eccesso danneggi organi come cuore, fegato e pancreas.
I risultati dello studio
Per lo studio di fase III, MEDALIST, pubblicato sul New England Journal of Medicine a gennaio 2020, sono stati arruolati 229 pazienti con sindrome mielodisplastica.
L’obiettivo primario dello studio era ridurre di almeno il 33% il fabbisogno di trasfusioni di sangue. Il secondo obiettivo era valutare una riduzione superiore al 50% del fabbisogno trasfusionale, osservata in più del 40% dei pazienti.
“I dati aggiornati indicano che il 47% dei pazienti trattati con luspatercept ha raggiunto l’obiettivo primario dello studio, ovvero la indipendenza dalle trasfusioni per almeno otto settimane, dunque circa 2 mesi. Si tratta di un passo importante verso un netto miglioramento della qualità di vita dei pazienti”.
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